Emio Greco: "Il corpo del danzatore non può che essere etico e sociale"
Un desiderio "italiano" per la sua Brindisi
13/09/2012ROVERETO - C’è un impegno che travalica il puro gusto della danza nel lavoro di Emio Greco, coreografo pugliese trapiantato in Olanda da parecchi anni. C’è la consapevolezza che il corpo del danzatore, oggi, non può che essere un corpo etico, sociale, che assorbe e restituisce tutti i conflitti, le crisi, i desideri, le utopie della controversa società contemporanea.
A 47 anni, Greco ha voluto puntualizzare questa idea “politica” del corpo, impegnandosi in un dialogo intimo col pubblico e con un partner che, significativamente, non è un danzatore ma un musicista, Franck Krawczyk. La performance, dal suggestivo titolo “Passione in due - La forza della vulnerabilità”, è andata in scena in prima italiana al festival “Oriente Occidente” di Rovereto, in vista del debutto al Théâtre des Bouffes du Nord di Parigi.
Dopo spettacoli ambiziosi e corali come la trilogia dantesca e “Addio alla fine” – che si dipanava tra le piazze e i battelli di Amsterdam – Greco e Pieter C. Scholten, divenuti un’indivisibile unità creativa sotto l’insegna “Emio Greco | PC”, hanno sentito il bisogno di una pausa di riflessione, di un piccolo evento introspettivo, che facesse il punto sul corpo del danzatore colto in un momento particolare del proprio percorso artistico ed esistenziale.
“Passione a due” è una sorta di diario intimo diviso in sette quadri, nei quali Greco duetta con "La Passione secondo Matteo" di Bach nella libera interpretazione al pianoforte di Krawczyk. Sette umori diversi, sette ritmi differenti, dal silenzio evocativo alla gestualità più estrema, dal pudore all’esibizionismo sfrenato, in un sovrapporsi di drammaticità e ironia, come in un cabaret espressionista che coniuga sensualità e provocazione, tenerezza e crudeltà. Il tutto in un corpo a corpo col pubblico che circonda la scena, chiamato a partecipare emotivamente a una performance che lo diverte quando non lo imbarazza.
«Questo spettacolo – spiega il coreografo – si situa in una fase della storia del mio corpo che definirei matura. Il mio corpo oggi è più consapevole della propria storia e della propria identità, di ciò che ha fatto e di quello che vorrebbe ancora fare, tenendo conto del fatto a che a vent’anni si ha la sensazione di potersi permettere tutto, mentre oggi devo selezionare, non perdere tempo».
Anche lo sguardo del coreografo è cambiato e ha maturato idee diverse sul senso dello spettacolo.
«“Passione a due” nasce dal desiderio di sperimentare una forma diversa di spettacolo, che si situa tra il concertante e il danzante. Volevamo, in un certo senso, svelare al pubblico una serie di informazioni che solitamente rimangono nascoste, per condividerle con modalità diverse».
Ne è venuto fuori un diario personale, una confessione in forma di passione, nella quale l’autore-interprete si mostra senza pudore nei suoi aspetti più drammatici ma anche può ironici e addirittura grotteschi.
«Come il diario di Nijinskij. Era necessario aprire questo diario, cercando però una forma diversa di autobiografia, che non fosse autoreferenziale. Se avvertissi in scena che un determinato movimento rischia di diventarlo, mi fermerei immediatamente».
Da qui, l’intento di spostare il focus sulla “politica” del corpo.
«Dobbiamo spostare l’attenzione da un corpo danzante a un corpo sociale, un corpo che esprima il vissuto concreto di ogni giorno. Il danzatore deve posizionarsi e prendere decisioni responsabili in scena, esprimendo una sensibilità politica. Se agiamo in questa direzione, ci accorgiamo di quante contraddizioni siamo portatori, ma la contraddizione è positiva, nel senso pasoliniano, perché ci costringe ad essere vigili, a non adagiarci sulla bella forma».
In questo percorso sembra che non possa albergare la bellezza...
«Non è vero, perché si crea un altro tipo di bellezza, che nasce dai contrasti, dalle dissonanze. Non sopporto il senso anglosassone dell’armonia, lo trovo odioso, perché è tutto volto all’entertainment. Gli inglesi considerano noi “europei” cultori del brutto, ma non capiscono che sono anacronistici, fuori dal reale, perché l’espressione dei contrasti, delle dissonanze, che molta danza europea propone, è un’esigenza del corpo; viceversa abbiamo un’armonia e un equilibrio forzati, irreali, fuori dalla storia».
È più difficile esprimere questo concetto del corpo sociale negli spettacoli corali, quando lavori con un corpo di ballo?
«Ci sono modalità diverse, ma il principio non cambia. È proprio quello che abbiamo cercato di fare nello spettacolo “Le Corps du Ballet”, che già nel titolo manifesta il desiderio di considerare il gruppo come un corpo unico, quindi con le stesse esigenze sociali ed espressive di cui stiamo parlando. In quello spettacolo, che abbiamo realizzato per Les Ballets de Monte-Carlo, c’erano 27 danzatori e ognuno di loro era investito della stessa responsabilità espressiva, non poteva nascondersi nel gruppo ed era a suo modo indispensabile. Il corpo è sociale anche quando ti impegni a fare interagire le diversità».
Sembra che tu abbia trovato una sintonia perfetta con Pieter Scholten, col quale crei tutti gli spettacoli. In che modo si concretizza questo sodalizio in riferimento alla ricerca artistica di cui stai parlando?
«Pieter a volte mi consente di fare scelte che da solo non sarei capace di fare, forse per pudore. Ad esempio, non avrei mai pensato di poter interpretare una “passione”. Lui mi permette quel distacco necessario per realizzare certe cose. È come se io diventassi lo strumento, il mezzo, per arrivare ad esprimere quello che pensiamo insieme. Oggi ci consideriamo due coreografi, non più un regista e un interprete, ognuno con le proprie caratteristiche, anche con quelle diversità che fanno nascere i contrasti di cui parlavo prima e che servono molto alle opere».
Cosa state preparando per la prossima stagione?
«Con “Addio alla fine” abbiamo concluso un percorso complesso, impegnativo, faticoso. Quest’anno vorremmo riflettere, quindi non abbiamo in programma nuove creazioni, a parte un impegno col Ballet National de Marseille, dove riproporremo l’esperienza di Montecarlo. Ma saremo anche in giro con la “Passione” e con una versione adattata ai teatri chiusi di “Addio alla fine”».
So che hai anche un “desiderio” italiano.
«Ogni volta che torno a Brindisi mi viene voglia di fare qualcosa per la mia città, per la mia terra d’origine. Ci ho pensato molto e vorrei realizzare una residenza di almeno due mesi l’anno in Puglia, un specie di succursale del centro ICKamsterdam, col quale intrattenere rapporti di collaborazione finalizzati alla realizzazione di eventi di spettacolo, ma anche stage, laboratori, seminari, incontri, una specie di comunità della danza».
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