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Roy Assaf -La danza è nel DNA degli esseri umani

Il 27 marzo in Fonderia a Reggio Emilia con Boys

Di Sergio Trombetta 22/03/2018
Roy Assaf -La danza è nel DNA degli esseri umani
Roy Assaf -La danza è nel DNA degli esseri umani

REGGIO EMILIA Segno incisivo e suadente, Roy Assaf è coreografo e performer. Considerato uno degli autori più in vista della scena israeliana, il trentanovenne Assaf si rivela uomo maturo dal pensiero originale. Cresciuto in una comunità rurale nel sud di Israele, pratica da bambino a livello amatoriale il tip tap, l’hip hop, il jazz e la modern dance. Poi l’incontro decisivo con Emanuel Gat, che immediatamente si accorge del suo talento. Insieme vanno in Francia per lavorare fianco a fianco sei anni. Fino a quando l’urgenza creativa di Roy diventa pressante. Da Israele, dove è tornato a vivere con la sua numerosa famiglia, si racconta.

Riflettendo sui suoi pezzi più visti in Italia come “The Hill” o “Six years later” possiamo dire che costruire un’atmosfera, dare vita a una situazione narrativa è una peculiarità della sua danza?
Credo che costruire un’atmosfera sia uno dei compiti di base di ogni coreografo. Spero che la mia danza possa suggerire frammenti narrativi però mai completamente formati, che ci sia sempre spazio per l’immaginazione.

Anche nei pezzi apparentemente più astratti come “Boys” o “Girls” c’è sempre qualcosa di concreto, è d’accordo?
Sono persone, c’è uno spazio, c’è un suono, la luce, i costumi e quindi, in conseguenza di tutto ciò c’è un testo, per forza e non si può evitare. Ma anche nei lavori più ‘narrativi’ non è mai troppo evidente di che cosa parli la storia, perché si aggiunge l’esperienza di ogni singolo spettatore.

Al Festival Bolzano Danza 2015, dove presentò “Girls”, dopo lo spettacolo all’incontro con gli spettatori disse che la sua vita è piena di donne, intendendo sua moglie e le sue tre figlie. Ora chi sono i cinque “Boys”? I suoi amici, i suoi figli, i suoi parenti?
Ovviamente ci sono boys nella mia vita e giocano un ruolo importante. Ma in qualche modo mi sono arreso a esser circondato da donne nella vita quotidiana e succede che mi senta molto a mio agio. Forse, comunque, dovrò fare spazio nella mia zona di confort visto che mia moglie ed io abbiamo avuto un bambino ad aprile.

Israele, il suo Paese, è presente nei suoi lavori, per quanto ne sappiamo, soltanto in “The Hill”, concorda? Più in generale quanto è presente la realtà del suo Paese (pace, tensioni, terrorismo) nel suo lavoro?
Israele è sempre presente nei miei lavori perché sono, fra le altre cose, un israeliano. La realtà quotidiana entra nello studio con noi anche se è un fenomeno universale come la malattia, i fallimenti, o come stereotipo tipicamente israeliano, gli allarmi delle sirene e i datteri.

Molti coreografi israeliani hanno lavorato presso la Compagnia Batsheva con Ohad Naharin, lei invece al contrario ha cominciato con Emanuel Gat. Quanto importante è stata questa esperienza?
Emanuel Gat mi ha fatto capire e credere che la coreografia è una professione e che sono un coreografo.

In un certo senso Israele è un paese felice, non c’è il peso dell’eredità della danza classica, tutto è nuovo. Ma ogni coreografo ha le sue radici. Le sente di avere delle radici e di quali si tratta?
Le mie radici sono i party di famiglia dove danzavo senza un attimo di sosta da bambino, l’insegnante nel mio centro comunitario che mi incoraggiò a realizzare i miei passi da ragazzo. E poi ovviamente tutto quello che ho visto, ascoltato, annusato, assaggiato lungo la strada. Credo che non avere una grande formazione di danza tradizionale ha permesso alle mie radici di espandersi. Non attribuisco molta importanza alle appartenenze in danza.


intervista pubblicata su Danza & Danza 274 maggio/giugno 2017

 



 

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