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La danza della fine

Di Roberto Giambrone 05/04/2017
La danza della fine
La danza della fine

Siamo alla frutta. Quante volte nel corso degli ultimi venti o trent’anni abbiamo sentito intonare il de profundis del teatro, della danza, della letteratura e delle arti in genere? Nel migliore dei casi si è parlato di crisi, una crisi infinita che assomiglia a un angoscioso tunnel senza vie di uscita. Nel peggiore dei casi si è parlato a più riprese di morte del cinema, di fine della letteratura e di conseguente nostalgia dell’antico, di revival e rigurgiti vintage. L’impossibilità di esprimersi è una pesante eredità novecentesca, che da Adorno in poi (“impossibile scrivere una poesia dopo Auschwitz”) ha condizionato gli artisti, gli scrittori e i creativi in genere, aprendo la strada alle stagioni del post: postmodernismo, postcoloniale, post-apocalittico (l’Apocalisse è tornata di moda, tra profezie Maya e neo catastrofismi) fino all’attuale epoca della post-verità.

Eppure gli artisti si esprimo ancora: cinema, teatro, letteratura, arti visive proliferano a dispetto dei cantori della fine. Perché dunque continuiamo a parlare così insistentemente di crisi? E come si traduce questo sentimento nella produzione artistica? Proviamo a capirne di più guardando proprio al mondo della danza contemporanea.

Uno spettacolo come Bit di Maguy Marin (2014) rispecchia in modo esemplare quella poetica della fine che accomuna diversi autori europei in bilico tra teatro e danza, da Jan Fabre a Christoph Marthaler, da Alain Platel a Pippo Delbono, da Roberto Castello a ricci/forte, solo per citarne alcuni.

Bit ripropone, in chiave contemporanea, il tema della Totentanz, la danza macabra che era diventata un fenomeno di massa nel medioevo, un antidoto alle paure del millenarismo, alimentate dalle carestie e dalle pestilenze, che mietevano vittime senza guardare in faccia nessuno: ricchi e poveri, potenti e svantaggiati, come ci spiega la copiosa iconografia dell’epoca, dai trionfi della morte alle incisioni e miniature nelle quali un arzillo scheletro trascina i rappresentanti di tutte le caste sociali in un girotondo letale. E proprio il tema della carola è ripreso da Marin nella sua incalzante coreografia, dove una gioiosa brigata di danzatori, come rapita in una trance ipnotica, si avvia baldanzosa nel baratro della fine. Vita e morte vanno a braccetto, si celebra la gioia dell’esistenza attraverso l’estasi della danza sapendo che solo la morte può porre fine a questo esuberante horror vacui.

Sono parecchie le assonanze tra la coreografia di Marin e il palindromico In girum imus nocte et consumimur igni di Roberto Castello (2015), dove gli interpreti sono trascinati in un’estenuante ed enigmatica danza che alterna stati catatonici a giravolte e impeti isterici. Ogni tanto, nella serrata coreografia di Castello, una perentoria voce fuori scena comanda il buio (dark) o la luce (light), aggiungendo qua e là una altrettanto lapidaria espressione che suona come un memento mori. Il glaciale disegno delle luci guida i rappresentanti di questa umanità allo sbando nella loro sfibrante marcia, imponendo un dinamismo implacabile, che li vede ora affannati e disfatti, ora in preda a una sorta di euforia. Pure in questo caso si ha la sensazione di assistere a una Totentanz medievale in stile contemporaneo, la quale può essere letta anche come metafora della danza, che può essere sia prometeica condanna sia fuoco rigeneratore.

Prossimo alla fine è infatti il principio dell’Apocalisse, di una catastrofe che a fronte del sacrificio estremo promette la rigenerazione. In questa chiave si può leggere il folgorante assolo di Enzo Cosimi Sopra di me il diluvio (2014), nel quale la bravissima Paola Lattanzi attraversa stati progressivi di disfacimento e sfinimento lasciando intendere una possibile salvezza nel segno di un ritrovato equilibrio con la natura. Ma il tema dell’Apocalisse è molto caro anche a Jan Fabre, che lo declina secondo il principio della metamorfosi, di un disfacimento che prelude alla rinascita, come avviene nel ciclo vitale dei lepidotteri. Con il suo stile barocco, ricco di citazioni pittoriche, ce ne dà una dimostrazione nell’impressionante performance Preparatio mortis (2005-2010), al termine della quale l’interprete, dopo un animoso corpo a corpo con cataste di fiori in putrefazione, si rintana in una tomba trasparente. Nuda e imprigionata come in un bozzolo, la donna diventa una larva, mentre insetti già maturi le invadono il corpo, lasciando intendere una sua prossima trasformazione.

In Fabre è chiaro il desiderio, che condivide con altri autori europei, di affrontare il tema della morte per elaborarne il lutto, auspicando una rinascita che sia foriera anche di nuove forme espressive. Lo credono, tra gli altri, Angelin Preljocaj, che si è ispirato all’Apocalisse di Giovanni per realizzare lo spettacolo Suivront mille ans de calme (2010), e il duo italiano ricci/forte, che ha condensato tutte le ossessioni, le paure e le isterie della fine in Imitationofdeath (2012): “Una rappresentazione in cui la morte è la chiave d’accesso alla vita”, come spiegano in un’intervista.

L’attuale scenario geopolitico costringe a rivedere il ruolo e la posizione dell’artista nella scena contemporanea. Ignorarlo è impossibile, considerate le ricadute che ha sugli stati d’animo e sulle abitudini del mondo occidentale, oggi più che mai in crisi. I coreografi si attrezzano tematizzando questa crisi: dall’economia al ‘grande gioco’ del potere internazionale, dai fenomeni migratori alle incertezze e alle paure della società liquida, tutto viene elaborato e filtrato dallo sguardo dei coreografi. C’è chi auspica un nuovo umanesimo come Roberto Zappalà (Transiti Humanitatis, 2015-2017); chi, come Virgilio Sieni, cerca di estrarre dai corpi e dai gesti della gente comune, ma anche dall’antico mestiere del puparo Mimmo Cuticchio, le storie e le memorie sedimentate, per ridare un senso alla danza al di là di qualunque tentazione estetica o di autoreferenzialità del linguaggio.

Insomma, il laboratorio della fine è in piena attività, a dimostrazione del fatto che il lutto del ‘secolo breve’ è ancora vivo, alimentato da nuove dolorose ferite. Di fatto, dopo la grande stagione del Tanztheater, che del male di vivere aveva fatto il proprio manifesto, si è consolidato nella coreografia contemporanea uno “stile della fine”, formalmente determinato da un trovarobato un po’ demodé, da musiche vintage, passerelle bauschiane e balli di repertorio, da un certo illanguidimento del portamento e dell’espressione degli attori, cui fanno da controcanto struggenti catatonie o impressionanti esplosioni isteriche, sfinimenti e sacrifici. È un teatro che spesso volge al proclama, all’appello più o meno solenne o disperato, che ha il tono della confessione o del monito e che spesso ci da la sensazione di assistere ‘all’ultimo spettacolo’, a una resa dei conti. Si tratta di capire quanto questa Apocalisse teatrale preluda, come si diceva prima, ad una palingenesi, al rinnovamento dello statuto, dei temi e dei linguaggi della danza o se non dobbiamo considerare l’ossessiva messa in scena del declino un irreversibile processo senza appello.

 Compagnie Maguy Marin in "BIT" (foto Grappe)

 

 

 

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